Lo scudetto ai tempi del Covid-19 – 1. Quella maledetta domenica di luglio

«Io n’esco più de casa, me faccio n’altra quarantena, sto tanto bene qua».
«Ok il tifo, ok rosica’, ok tutto, però a ‘na certa so’ altre le cose importanti della vita…» commentò Francesco, senza staccare gli occhi dallo smartphone.
«Da quanno te sei fidanzato sei diventato ‘n bidone dell’immondizia, ma de quelli che non ritirano mai» disse Damiano.
«Perché ce ne stanno altri?».
Giorgio, invece, lanciava fiamme dagli occhi. Camminava avanti e indietro con le mani piantate sui fianchi. «Siete du’ cojoni». E puntò il dito contro Francesco. «Tu, con le tue frasi fatte del cazzo… so’ altre le cose importanti della vita, ma chi sei mi madre? Ma vaffanculo va!». Si sistemò la maglia sui pantaloni e questa volta prese di mira Damiano. «E tu, seduto sul divano, bono bono, non esco più di casa questa ceppa di cazzo, hai capito? Qua c’è da ammazzasse, è ‘na tragedia!». E istintivamente allungò il braccio verso la finestra, da dove provenivano urla, clacson, cori. Di tutto.

Il seminterrato di Giorgio era un fortino romanista, allestito con amore insieme ai suoi due amici di sempre. Uniti dalla fede giallorossa, avevano eretto il loro luogo di culto. Appese alle stampelle, in stile spogliatoio, spiccavano le maglie delle leggende romaniste. Non avevano mai voluto incorniciarle, perché le anime di coloro che le avevano indossate si aggiravano ancora tra quelle casacche, e non potevano essere intrappolate in quattro pezzi di compensato. Antonioni, Di Bartolomei, Falcao, Conti, Batistuta e ovviamente Totti e De Rossi, non mancava nessuno all’appello.
Davanti al divano campeggiava il muro delle firme, che accoglieva decine di autografi e fotografie. A difesa del portone, come due santi protettori, i calzettoni non lavati di Samuel e Aldair, a cui ogni anno venivano offerti sacrifici in segno di rispetto e devozione.
I tre fedeli si rintanavano nel fortino ogni domenica per vedere la partita della Roma. Maglie ufficiali indossate al contrario, sciarpa di Roma-Liverpool 1984 sul televisore ultrapiatto e fiumi di birra ghiacciata.
Quella maledetta domenica di luglio, però, fu molto diversa. Giorgio, Francesco e Damiano si erano sintonizzati su Napoli-Lazio, ultima fatica del campionato posticipato a causa del Covid-19. Era successo l’inimmaginabile, la squadra di mister Inzaghi aveva acciuffato il pareggio al 90’, strappando quel punto che aveva consegnato lo scudetto a Immobile&Co.
«Porcoddeno, io non volevo assiste a n’altra sfilata de trattori!».
«Te li immagini? Tutti ‘n giro co’ la mascherina biancoceleste, peggio delle tardone che ce l’hanno leopardata…».
Il campanello li sorprese nel bel mezzo della disperazione. Giorgio guardò l’orologio, 23 passate. Erano arrivate le pizze. Non mangiavano mai prima delle partite, la pancia piena smorzava la tensione.
«France’, pensace te, che almeno pe’ 5 minuti nun te vedo a fa’ er riconjonito co’ Ginevra, li mortacci tua».
Francesco non poteva ascoltarli. I messaggi di Ginevra danzavano con i suoi bollenti spiriti, promettendo piaceri a cui il ragazzo aspirava dal giorno in cui si erano conosciuti.
Così, imprecando, Giorgio fece gli onori del fortino. Diede la mancia al runner e posò le pizze sul tavolo. Come al solito Er Bufalo aveva scritto le iniziali dei loro nomi sui cartoni.
«Io mo manco c’ho fame…» bofonchiò Damiano.
Ma quando aprirono i cartoni delle pizze, Giorgio e gli altri dimenticarono per un momento perfino lo scudetto appena vinto dalla Lazio.

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