A star is Sbornia – 9. Piovono Lego

Stefano entrò nel suo appartamento, cercando di ricordare quando avesse firmato i documenti che lo privavano anche dei mobili. Doveva trattarsi di un altro brutto tiro di Guenda. Ma quando varcò la soglia, la testa gli si svuotò.
Il salotto era vuoto. La cucina vuota. La camera vuota. Nel bagno erano rimasti i sanitari.
Quei tizi vestiti da pinguini imperatori avevano lasciato solo l’album rotto di Billy Esposito per terra, nel corridoio, lì dove lo aveva tirato Alessandra. A giudicare da come era ridotto dovevano averlo calpestato senza alcuna cura.
Stefano si chinò, il volto senza tatuaggi si rifletteva sulla plastica della custodia del cd, quasi a sovrapporsi allo sguardo ammiccante del giovane pieno di sogni e belle speranze ritratto sulla copertina.
Gli sembrò di vedere il suo doppio del passato piangere, ma in realtà quelle lacrime erano sue. Forse l’unica cosa che gli era rimasta, scendevano vinte dalla forza di gravità.
La forza di gravità.
Stefano guardò la finestra spalancata.
Un saltino e sarebbe finito tutto. Solo un piccolo salto nel vuoto.
L’ultimo volo di Red Sbornia, fino a quel momento famoso per i suoi stage diving, sorretto dai ragazzini urlanti dei suoi concerti. Sarebbe stato tanto diverso?
Poteva farlo in diretta.
Che idea geniale! Un’uscita di scena coi fiocchi. Un suicidio in tempo reale: il suo testamento artistico. Avrebbe urlato “Io sono Billy Esposito! Fanculo la Trap!” mentre si abbandonava al suo destino.
Stefano prese lo smartphone. Aprì Instagram. Tentò di entrare nel suo profilo da artista, ma la piattaforma gli comunicò che la password era inesistente.
«Io l’ammazzo» sussurrò a denti stretti, era arrivato al limite.
Si accasciò a terra sconfitto, rannicchiandosi in posizione fetale. Prese di nuovo lo smartphone e chiamò la sua acerrima nemica.
«Stefano! Da quanto tempo? Ti piace il nuovo arredamento?» lo prese in giro la voce squillante di Guenda.
«Sei una puttana» piagnucolò Stefano.
«Ma di classe, tesoro. A cosa devo l’onore di questa chiamata?». Dalla voce, si sarebbe detto che Guenda fosse in splendida forma.
«…»
«Te l’avevo detto di non andare alla polizia, caro. Hai visto cosa succede se disobbedisci alla tua Guenda?»
Stefano deglutì. Chiuse gli occhi. Inspirò profondamente e poi confessò.
«Va bene, hai vinto».

Il rumore era assordante, migliaia di persone sventolavano scatole di Lego urlando. Un palco enorme, cavi ovunque, luci accecanti. Red Sbornia stava per fare il suo roboante ritorno, dopo mesi di assenza. L’ufficio stampa aveva mascherato quel periodo di latitanza con un viaggio in India alla ricerca di sé stesso; bugia non troppo distante dalla realtà, in fondo.
Una truccatrice stava ripassando i tatuaggi sul volto di Stefano, mentre lui osservava triste il proprio riflesso allo specchio. Era tornato ad essere il suo peggior incubo.
Quando arrivò il momento di andare in scena il direttore artistico gli fece un cenno.
Mosse i primi passi di fronte al pubblico che lo acclamò adorante.
Red Sbornia prese il microfono. Per un attimo gli balenò nella testa di urlare la verità a tutti. Fare un discorso strappalacrime alla Jeff Winger e cambiare per sempre la vita di quelle persone e la sua. Già, la sua vita.
Si guardò intorno. Vide Guenda sventolare la pennetta usb contenente i video di lui che entrava in casa di Luigi e ne usciva, nell’altra mano stringeva il nuovo contratto.
Partì la base musicale.
Il cantante portò il microfono davanti alle labbra, tremanti.
«Milano, voglio sentire la tua cazzo di voce!» urlò, già infestato dall’auto-tune.
Una pioggia di Lego cadde dal soffitto della sala inondando il pubblico che perse il controllo come un’entità unica e iniziò a urlare.
Stefano chiuse gli occhi, in fondo stava facendo quello che sapeva fare meglio.
Iniziò a cantare. Red Sbornia era tornato a farsi le mammine.

FINE

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